domenica 29 maggio 2011

IL COMPLESSO TEMPLARE DI TELL EL AMARNA


Quando Akhenaton (1351-1334 a.C.), faraone della XVIII dinastia, decise di trasferire la capitale dell’Egitto da Tebe a Tell el Amarna era ormai al quarto anno del suo regno. La zona prescelta per la nuova città si trovava in un territorio vergine del medio Egitto dove nessuno aveva mai edificato. L'intera famiglia reale con i vari dignitari dovette trasferirsi nella nuova capitale Akhetaton, “L’orizzonte di Aton”, concepita per essere, da quel momento in poi, il fulcro della riforma religiosa  fondata sul culto esclusivo di Aton, il disco solare. Il nuovo palazzo reale e soprattutto il grande tempio di Aton dovevano esprimere con magnificenza la nuova ideologia.
Il nuovo e immenso complesso templare di Akhentaten era il cosiddetto Per-Iten,  che significa "il territorio di Aton", e si trovava nel settore nord del quartiere centrale della nuova capitale. Il tempio veniva ad essere a stretto contatto con la Via Reale che attraversa l'intera città e soprattutto con la nuova residenza del faraone. 
Il complesso consisteva in un grande temenos rettangolare che misurava  760x270 m con orientamento ovest-est. All'interno di questo grande recinto sacro erano racchiuse diverse strutture dedicate al culto solare. L’ingresso al complesso era collocato ad ovest:  un pilone d’accesso  immetteva direttamente nell'immensa corte. A sinistra dell'entrata una costruzione, di cui non è stata ancora chiarita la funzione, era provvista di due sale ipostile al coperto.
Subito dopo c’era il Grande Tempio dedicato ad Aton fiancheggiato a destra e sinistra da due grandi aree destinate ad ospitare 365  tavole d’offerta  (il numero era collegato al ciclo solare).
Alle spalle del grande tempio, ad est, si trovava il Santuario. Erano presenti anche altri edifici posti a metà strada tra i due grandi complessi. Sul lato nord-est del temenos, addossato al muro, c’era la cosiddetta “Sala dei tributi stranieri”, ovvero un grande altare dove si presume venissero raccolte le offerte delle terre straniere.

IL TEMPIO GRANDE DI ATON
Lungo circa 210 metri, ad oggi risulta completamente obliterato poiché,  soprattutto durante la XIX dinastia, gran parte del materiale in pietra venne asportato e riutilizzato nei templi lungo la riva occidentale del Nilo. La pianta originaria del tempio è stata ricostruita grazie al rilievo delle sue fondamenta e ad alcune porzioni di muratura. L'abbandono della città dopo la morte di Akhenaton e la mancanza di nuove costruzioni nel sito ha impedito il formarsi di stratificazione architettonica.
L’ingresso del tempio era ad ovest in asse con quello del temenos che si apriva sulla Via Reale. Subito dopo un primo pilone ornato con aste per le bandiere, si entrava  nel cosiddetto Per-hai, "La casa del Giubilo": due sale ipostile al coperto, con otto colonne per ciascuna separate da una via cerimoniale a cielo aperto che partiva da qui e proseguiva assialmente per tutta la lunghezza del tempio. All'intero delle sale ipostile erano collocati degli altari in calcare con immagini di Akhenaton e Nefertiti che offrono all'Aton.
Dopo un secondo pilone si giungeva al Gem-Aten,  "La Rivelazione di Aton" ovvero due vasti cortili a cielo aperto, con 224 altari sacrificali per ciascuno, separati da un portale. Nel primo cortile un altare era  a metà della via cerimoniale. Superato un altro portale si arrivava ad una terza corte quasi quadrata tagliata dalla via processionale: ad ovest  tavole d’offerta, ad est 18 colonne e altre tavole di offerta coperte da un baldacchino in muratura.
Il tempio proseguiva con un quinto pilone e una quarta corte  completamente occupata da tavole d’offerta. La quinta e la sesta corte costituivano il sancta sanctorum: nella prima tavole d’offerta e 16 piccoli ambienti, 8 per parte, probabilmente coperti e destinati agli arredi sacri; nell’ultima altre tavole d’offerta e 10 piccoli ambienti con piccoli altari. Sulla parete di fondo tre locali allineati ciascuno con tre tavole d’offerta.

La luce del sole è l'elemento principale del tempio, il vero protagonista che si manifesta con questa serie di corti a cielo aperto dove avvenivano le cerimonie di culto. La concezione è quindi l'esatto contrario di quanto accadeva  nel tempio tradizionale dove invece c'era il progressivo passaggio dalla luce della corte alla penombra del sancta sanctorum.


IL SANTUARIO BEN-BEN
Sebbene racchiuso all’interno del temenos e posto sulla stessa linea del grande tempio, questo santuario non poteva essere raggiunto passando attraverso gli ultimi ambienti del Gem-Aten, dove effettivamente non sono state trovate vie d’uscita. Quindi chiunque avesse voluto raggiungerlo avrebbe dovuto ripercorrere l'intera via cerimoniale, uscire dal tempio e dirigersi a est. E' difficile comprendere il perché di questa disposizione e  dell'enorme distanza, circa 300 metri, tra tempio e santuario.
L’accesso al santuario avveniva attraverso un pilone seguito da un cortile rettangolare dove sorgevano tre abitazioni per i sacerdoti. Superato il secondo pilone una seconda corte quadrangolare  racchiudeva il vero santuario che consisteva prima di tutto in un terzo pilone e un cortile con portico colonnato con statue colossali di Akhenaton. Superato un vestibolo si raggiungeva la quarta corte con tavole d’offerta e piccoli vani lungo il perimetro. Il tutto era protetto da un recinto quadrato il cui muro di fondo aveva passaggi per permettere l’uscita e accedere al cortile successivo che presentava accessi laterali essendo addossato al muro perimetrale. Al centro di questa quinta corte Akhenaton aveva fatto erigere un altare al momento della fondazione della nuova capitale. Un sesto ed ultimo cortile consentiva l'uscita dal santuario.
Il santuario Ben-Ben era il diretto discendente dei templi solari della V dinastia, come quello Abu-Gurob,  costruito sul modello del tempio solare di Heliopolis, dove  il ben-ben veniva considerato l’incarnazione del sole creatore.


IL BEN-BEN
Si trattava di un piccolo luogo sacro porticato collocato tra il tempio e il santuario decorato con statue di Akhenaton e della sua famiglia. All'interno era conservata una stele che simboleggiava il ben-ben, cioè la rappresentazione della collinetta primordiale dove, secondo la teologia eliopolitana, il demiurgo avrebbe dato inizio alla creazione. La stele era decorata con immagini di Akhenaton e Nefertiti ed era fiancheggiata da una statua colossale del faraone seduto in trono.

TELL EL AMARNA: La tomba di Akhenaton


Il sito di Tell el Amarna venne scelta da Amenofi IV (1351-1334 a.C.) faraone della XVIII dinastia, per fondare  una nuova capitale dell’Egitto, Akhetaton, ovvero “L’orizzonte di Aton”, in onore del dio Aton, il disco solare che egli scelse di venerare in esclusiva e per il quale mutò il suo nome in Akhenaton che significa “Il preferito di Aton”. Il faraone per questo motivo viene definito  'eretico' sebbene il culto delle altre divinità del pantheon egizio non sia mai stato realmente abbandonato e alla morte di Akhenaton non fu difficile tornare al passato attraverso quella che viene definita "restaurazione".
Akhenaton scelse il sito di Tell el Amarna, nel medio Egitto, come nuova sede della sua corte e come nuovo luogo di sepoltura non solo per sé e la sua famiglia ma anche per i suoi dignitari. Lo scopo era rompere con l'antica tradizione tebana e soprattutto con la sua classe sacerdotale e allontanarsi il più possibile per poter sviluppare il suo progetto religioso ex novo. Proprio questo allontanamento però fu una della causa del manco successo della sua politica e della damnatio memoriae immediatamente dopo la sua scomparsa.
La grande tomba del faraone fu scoperta intorno al 1880 da scavatori clandestini, ma era già stata violata in antichità. Essa è collocata ai confini della città di Akhetaton e per questo e anche per la planimetria si discosta notevolmente dalle altre tombe reali della Valle dei Re. Effettivamente la tomba fu scavata nella montagna ad est della nuova capitale, contravvenendo all’antica pratica che prevedeva le sepolture ad ovest, il luogo dove si credeva risiedessero i morti. Questa scelta è probabilmente da porre in relazione con il sorgere del sole ad est  ma è molto probabile che il sito sia stato scelto la vicinanza alla capitale.
La tomba risulta gravemente danneggiata soprattutto per quanto riguarda i rilievi parietali. Ciò è dovuto allo sgretolamento dell’intonaco e alle infiltrazioni saline, ma soprattutto alla damnatio memoriae che Akhenaton subito dopo la sua morte. I tentativi di asportare i rilievi avvenuti in epoca moderna hanno causato danni tali che ormai i rilievi risultano quasi del tutto scomparsi e illeggibili.
La tomba è incompiuta e si trova nel Wadi Abu Hasah el-Bahri. Rispetto alle tombe tebane è molto più estesa e soprattutto procede in linea retta all’interno della montagna senza spezzature nell’andamento del corridoio principale come accade invece per le tombe della XVIII dinastia. Il motivo di questo cambiamento radicale sembrerebbe sempre collegato al culto solare e permettere ai raggi del sole di raggiungere direttamente la sala del sarcofago che ovviamente risulta in posizione assiale con l'entrata. Un'altra particolarità sono   i due appartamenti costruiti sul lato destro del corridoio e destinati ai membri della famiglia reale.

IL CORRIDOIO E GLI APPARTAMENTI FUNERARI
Procedendo dall’entrata verso l'interno, si incontra una scala di venti gradini divisa in due da una sorta di scivolo per consentire un trasporto più agevole del sarcofago all’interno della tomba. Il corridoio lungo più di 21 metri e largo e alto più di 3 non presenta alcuna decorazione. A metà del percorso si trova l’ingresso al primo appartamento, rimasto incompiuto, e destinato probabilmente ad accogliere le spoglie di Nefertiti, la famosa moglie del faraone: gli ambienti, stretti e allungati, sono sei, posti l’uno di seguito all’altro. I primi due sono perpendicolari al corridoio, il terzo forma una curva che svolta a sinistra creando un angolo retto da cui si dipartono i restanti ambienti paralleli al corridoio principale.

Lungo il corridoio centrale si incontra una seconda scala di 17 gradini sempre con rampa centrale. In questo punto, sempre sulla destra, si trova il secondo appartamento fatto di tre ambienti quadrangolari che differiscono nelle dimensioni e che erano destinate alle figlie del faraone. La prima camera detta alfa era destinata alle figlie Neferneferura e Setepenra. La seconda camera detta  beta  è la più grande e non presenta decorazioni. L’ultima camera detta  gamma è la più piccola ma anche la più interessante insieme alla camera alfa. In base al ritrovamento di un frammento di sarcofago in granito rosa sappiamo che essa era destinata a Makitaten, secondogenita di Akhenaton, morta giovanissima. I rilievi nelle camere alfa e gamma sono purtroppo irrimediabilmente danneggiati ma restituiscono ancora l'intensità delle scene rappresentate di sappiamo qualcosa di più anche grazie alle fotografie e alle testimonianze di inizio XX secolo. Essi che rendono omaggio alla defunta Mekitaten attraverso scene di lamentazione assolutamente uniche nella storia dell'arte dell'antico Egitto poiché raffigurano la famiglia reale in lutto. Le scene di lamentazione non sono nuove nelle tombe e vanno dall'antico Regno fino all'epoca tarda ma al momento non risultano altri esempi del genere poiché di solito i protagonisti non sono mai di rango reale. La manifestazione del dolore espressa in modo così intenso e intimo da parte di un faraone e la sua regina resta ancora un caso unico.


LA CAMERA GAMMA
La figlia del re, del suo corpo, che l’ama, Mekitaten, nata dalla grande [sposa reale Nefertiti], vivente in eterno. Questa iscrizione su una delle pareti non lascia dubbi sulla sua destinazione della camera.
In uno dei rilievi molto danneggiati, la principessa è  distesa su un letto mentre  i genitori piangono la sua morte. Altre due persone, non di rango reale, piangono la defunta ai piedi del letto. La scena si svolge all’interno di una stanza mentre fuori  altre figure, uomini e donne, su due registri, compiono vari gesti di lutto. Tra questi si c'è anche il visir, ma ad attirare l'attenzione è una donna che allatta­ un neonato: forse la figlia del faraone è morta dando alla luce un figlio? L’iscrizione davanti alla donna con il bambino è molto discussa, ma sulla base delle uniche testimonianze fotografiche pervenuteci, il nome inciso potrebbe essere quello di Mekitaten. Ciò vorrebbe dire che la figlia del faraone è rappresentata come  defunta ma anche come nascitura. La spiegazione andrebbe cercata   nell’ideologia amarniana  secondo la quale il defunto tornava sulla terra sotto i raggi benefici dell’Aton. Il neonato sarebbe dunque Mekitaten rinata.
Nella parete opposta della stessa camera  Mekitaten, o la sua effige, è all’interno di una cappella avvolta da piante che simboleggiano la nascita e la resurrezione. Sempre nella stessa camera,  Akhenaton, la regina Nefertiti e le tre principesse sono rivolti verso un sacello che custodisce una figura di donna e hanno  il braccio alzato e il palmo della mano rivolta verso il viso in segno di lutto. Dietro di loro, su due registri, due schiere di lamentatrici. Malgrado il cattivo stato di conservazione dei rilievi lo stile amarniano è ben riconoscibile attraverso l'abbandono dell'armonia e del classicismo e l'adozione  dei crani slungati, colli esili, fronti sfuggenti, nasi pesanti, labbra grosse, gote magre e occhi appena aperti. Il  ventre dei protagonisti è prominente e le gambe grandi.


LA CAMERA ALFA
La decorazione  è molto simile a quella della camera gamma. Su due registri è rappresentata una scena quasi identica con un personaggio reale che si lamenta all’entrata di una stanza dove è custodito il letto con il corpo di una principessa. Nel registro superiore ritroviamo la scena della nutrice mentre esce dalla stanza con  un neonato. A completare il tutto una folta schiera di personaggi compie gesti di lutto.

IL POZZO DI PROTEZIONE
Superata la seconda rampa di scale (quella in corrispondenza del secondo appartamento) si incontra il pozzo  di protezione che funge da anticamera. Alle pareti ci sono rilievi oggi non più leggibili,  si distinguono appena le figure di Akhenaton e Nefertiti offerenti all’Aton e ad una processione di principesse oranti.

LA CAMERA DEL SARCOFAGO
Superato il pozzo c’è la camera del sarcofago, che per dimensioni supera tutte le altre di cui si è parlato fino ad ora. All'interno, sulla sinistra, si trova una piattaforma con due pilastri quadrangolari. A destra doveva essere collocato il sarcofago. Nell’angolo superiore destro della stanza c’è un piccolo vano incompiuto di cui non si conosce la destinazione. 
La posizione troppo ravvicinata al pozzo di protezione indicherebbe che questa stanza in realtà non poteva custodire il sarcofago reale. La tomba effettivamente risulta incompleta e questo farebbe pensare che la famiglia reale sia stata portata altrove. A sostegno di questa testi c'è la totale mancanza di tracce, anche frammentarie, di suppellettili. Anche dopo un saccheggio, che sia avvenuto in antichità o di recente, restano inevitabilmente indizi. Ciò nel caso della tomba di Akhenaton non è riscontrabile.
La decorazione di questa presunta sala del sarcofago, anch'essa illeggibile e quasi interamente scomparsa, lascia supporre, insieme al resto della decorazione della tomba, che vi fossero scene di adorazione dell’Aton, offerte, lamentazioni e invocazioni del faraone defunto. Sono rappresentati anche suppellettili funerarie e di arredamento.
Un bassorilievo irrimediabilmente danneggiato e quasi illeggibile nella parete sinistra della camera E (subito dopo le camere per le figlie e la rampa di accesso) rappresenta un gruppo di lamentatrici in stile amarniano con un vasto assortimento di gesti. La scena è nota solo grazie ad uno schizzo eseguito  all'inizio del XX secolo.

Schizzo della scena di lamentatrici nella camera E, ormai non più leggibile.
Da Bouriant, Legrain, Jequier, Monuments puor servir à l’étude du culte d’Atoun en Egypt I. MIFAO 8, 1903, p. 10, fig. 3

Un'altra  scena di lamento funebre, questa volta con uomini  a grandezza naturale fu distrutta negli anni ’70 da ladri che tentarono di asportarla. Le iscrizioni della camera funeraria sono ovviamente irrecuperabili visti i danni che la furia iconoclasta consumatasi in antichità e i tombaroli hanno prodotto.

 

sabato 28 maggio 2011

LA RISCOPERTA DELL'ANTICA LINGUA EGIZIA: IL MEDIOEVO MUSULMANO


Durante l’alto Medioevo, mentre in Europa il pensiero dominante circa i geroglifici aveva attribuito loro un profondo simbolismo magico contribuendo a diffondere un’interpretazione errata ma estremamente popolare che influenzò i futuri studiosi europei prima della decifrazione,  il mondo islamico, attraverso i suoi storici e alchimisti, sembra avesse già intuito la valenza sia fonetica che determinativa degli antichi segni egizi. A partire dall’VIII-IX secolo d.C. in poi gli studiosi islamici approcciarono la decifrazione dei geroglifici attraverso l'interpretazione di pochi caratteri intuendo di trovarsi davanti ad un alfabetico fonetico e non solo.
Tra questi lungimiranti studiosi c'era  Dhul-Nun al-Misri,  (796-861) un mistico musulmano egiziano che visse nell'alto Egitto e che può essere considerato un  precursore della decifrazione dei geroglifici poiché capì che i segni egizi indicavano sia suoni che idee. Al-Misri sembra abbia vissuto per lungo tempo all’interno del tempio di Akhmim, una delle città più importanti dell’antico Egitto e pare fosse in grado di comprendere bene l’antica lingua egizia scolpita sulle pareti del tempio. A lui viene attribuito un manuale di decifrazione di oltre 300 scritti, inclusi i geroglifici egiziani. Questo manuale ci è pervenuto attraverso una copia del XVIII secolo ritrovata in Turchia e mostra una corretta associazione tra di suoni e segni oltre che un corretto ordine di questi ultimi.
Un altro importante personaggio dell’epoca fu Ahmad bin Abu Bakr Ibn Washiyya. Vissuto in Iraq intorno al IX-X sceolo, studioso di chimica, agricoltura e culture pre-islamiche, egli scrisse il “Devotee’s Yearning to Understand the Symbols of Pens” tradotto e pubblicato in Inghilterra, con il titolo di “Ancient Alphabets And Hieroglyphic Characters Explained: With An Account Of The Egyptian Priests, Their Classes, Initiation, And Sacrifices in the Arabic language”, solo nel 1806, non molto tempo prima della decifrazione di Champollion, il quale potrebbe tranquillamente aver visionato il manoscritto. Quest'opera descrive i segni determinativi della lingua egizia, ovvero quei segni che si trovano alla fine delle parole e che ne determinano l’esatto significato, anticipando tutti gli altri studiosi.  Le associazioni tra lettere e suoni compiute da Washiyya sono in gran parte corrette. Egli fu tra i primi a capire che i geroglifici non erano ciò che gli autori classici avevano creduto per così tanti secoli.
Al-Idrisi (1099–1165 o 1166) geografo, cartografo nonché egittologo musulmano vissuto in Sicilia menziona nei suoi scritti un altro decifratore di geroglifici la cui opera è andata perduta, tale Ayub Ibn Maslamah, vissuto nel IX secolo.
Abd al-Latif al-Baghdadi, (1162–1231) scrittore medievale, fisico storico e anche egittologo, nato in Iraq, era un uomo di grande cultura amante della conoscenza e nella sua monumentale opera si trova anche un Racconto sull’Egitto. Egli fu grande amante della storia spingendo le autorità musulmane verso una consapevolezza dell’importanza del passato e delle antiche culture a beneficio dell’Islam stesso. Egli può essere considerato uno dei primi egittologi poiché durante la sua permanenza in Egitto si dedicò ad una accurata descrizione degli antichi monumenti.
Muhammad al-Maqrīzī (1364 – 1442), musulmano e storico egiziano scrisse anch’egli un’opera importante sull’antico Egitto e pubblicata a Parigi alla fine del XIX secolo con il titolo di Description topographique et historique de l'Égypte.
Abu al-Qasim al-Iraqi, alchimista e studioso del XIV secolo nato in Iraq e vissuto in Egitto  scrisse un libro all’interno del quale i segni geroglifici sono numerosissimi, tra cui il simbolo dell’Uroboro, uno dei segni  più importanti per gli alchimisti dell’epoca, simbolo di eternità e rigenerazione. Il suo libro è pieno di iscrizioni geroglifiche ben copiate dai monumenti e al suo interno vi è anche un tavola dell’alfabeto geroglifico con  associazioni fonetiche non tutte corrette. Malgrado ciò va riconosciuto il merito di averne compreso il principio.
L’interesse che i Musulmani avevano nei riguardi dell’antico Egitto può essere dimostrato anche cogliendo l’importanza che essi diedero agli antichi monumenti di cui spesso usarono il materiale per costruire le moschee. Questo atteggiamento non era dettato dalla volontà di nascondere e distruggere ciò che apparteneva al passato, vista la presenza in posti rilevanti e niente affatto nascosti in cui alcune vestigia decorate con geroglifici erano collocate. Basti pensare alla madrasa di Qasr Dakhla e alla moschea di Khayrbak al Cairo. Il fascino che i monumenti egiziani esercitavano sugli studiosi musulmani era tale che spesso questi dedicavano loro intere opere descrittive.
Probabilmente questi studiosi riuscirono a trovare dei documenti che li aiutarono nella scoperta di una parte dell'antica verità egiziana. Dunque l'Era musulmana non cancellò completamente la lingua egiziana e la sua tradizione come per molto tempo si è voluto pensare. Non va poi dimenticato il ruolo centrale della lingua copta nella decifrazione dei geroglifici in quanto diretta discendente dell'antica lingua egizia, formata in maggioranza da segni del greco ma con l'aggiunta di sei segni demotici. Il copto divenne la lingua ufficiale della cristianità in Egitto ed era ancora in uso al momento della conquista musulmana nel 641.
Lo scopo principale degli scolari arabi era quello di avere accesso alla sapienza egizia e l'unico metodo era quello di leggere gli antichi testi. Essi non erano linguisti bensì alchimisti alla ricerca di una conoscenza che li aiutasse nell’esplorazione delle proprietà chimiche ed essendo capaci di leggere il copto potevano anche fare lo stesso con i geroglifici. Essi infatti già conoscevano la relazione che intercorre tra geroglifici e copto, ancora prima dell’avvento di Kircher e Champollion i quali erano pienamente consapevoli dell’apporto che il mondo arabo aveva dato allo studio dell’egiziano antico. La grammatica del copto realizzata da Kircher si basava su manoscritti arabi nei quali vi erano liste di parole in arabo con a fianco il corrispondente copto.
Il mondo musulmano medievale è stato tacciato di oscurantismo nei confronti delle antiche civiltà  poiché presumibilmente considerate dall’Islam come una fase dell’umanità caratterizzata dalla barbarie e dalla mancanza di fede. Alla luce di quanto riportato fino ad ora questo assunto può essere smentito visto l’interesse che gli studiosi arabi ebbero sin dai primi secoli del medioevo per l’antico Egitto e non solo. Un interesse che andava oltre la volontà di scoprire i magici segreti dell’alchimia egizia ma che sfociava in un vero amore per la storia e la conoscenza.
La visione eurocentrica che per molto ha influenzato gli studi sul Vicino Oriente, ha messo in ombra l'importante contributo del mondo arabo nella decifrazione dei geroglifici, fortunatamente messa in risalto, o per meglio dire, riscoperta dal Dr. Okasha El Daly, della London University College in un recente libro.

Per approfondire:
Dr. Okasha El Daly, Egyptology: The Missing Millennium. Ancient Egypt in Medieval Arabic Writings. UCL Press, London, 2005

venerdì 27 maggio 2011

LA CONCEZIONE DEI GEROGLIFICI EGIZIANI NEI TEMPI ANTICHI


La lingua dell'antico Egitto, come tutti sanno, era scritta attraverso immagini stilizzate di esseri viventi, uomini e animali, piante, oggetti e altro. I Greci antichi chiamavano questo tipo di scrittura ta hieroghyphika grammata, ovvero le sacre lettere incise. In passato veniva generalmente ammesso che il linguaggio discorsivo non potesse raggiungere la vera conoscenza. Al contrario, secondo molti autori e studiosi dell’antichità e non solo, lo scopo dei geroglifici egizi era proprio quello di permettere il raggiungimento di un sapere nascosto alla moltitudine. Questa convinzione si è protratta per molti secoli prima che finalmente i geroglifici fossero decifrati. Ma fino ad allora era parere comune che dietro di essi si nascondesse la Verità. Questa nozione di natura simbolica della scrittura geroglifica aveva radici profonde e si diffuse a partire dai tempi antichi: i geroglifici nascondevano un antico sapere che ne aumentò il fascino e il mistero.
La conoscenza della lingua egizia scomparve gradualmente durante i primi secoli dell'era cristiana,  sebbene ci fossero ancora sacerdoti che dimostravano di comprendere la lingua ieratica e quella demotica durante il II secolo a.C. L'ultimo testo scritto in geroglifico è datato al 396 d.C. conosciuto come il Graffito di Esmet-Akhom e si trova nel tempio di File, più precisamente sulla Porta di Adriano. L'ultima iscrizione in demotico è invece del 452 d.C. sempre da File. In quel momento si può affermare che la lingua geroglifica fosse ormai morta. Il processo venne senza dubbio accelerato da Teodosio I che chiuse tutti i templi non cristiani nel 391 d.C. Da questo momento si hanno solo notizie confuse e contraddittorie circa una tradizione millenaria che rimarrà seppellita per lungo tempo. La lingua egizia sopravvisse grazie al Copto solo per un breve periodo di tempo durante il I secolo d.C. prima di cadere nell'oblio nella tarda antichità. Il copto era scritto con lettere greche e il supplemento di sette segni demotici e il suo vocabolario era una commistione di parole greche ed egiziano. Il copto sarà di grande aiuto per la futura decifrazione ma non riuscì a mantenere viva la lingua egizia con l’avvento dell’era cristiana.
Anche quando la lingua egizia continuava ad essere viva i Greci e i Romani a diretto contatto con questa cultura non compresero mai davvero i suoi scritti incisi sui monumenti o i testi in ieratico e demotico conservati dai papiri. Malgrado ciò furono diversi gli autori, studiosi e filosofi che intrapresero viaggi in Egitto attratti dalla cultura faraonica, soprattutto durante gli ultimi secoli del I millennio a.C. Essi tentarono di dare una qualche spiegazione della lingua per poter risalire alle sue origini.
Una prima testimonianza riguarda Platone, il famoso discepolo di Socrate che durante il V secolo a.C. diede una sua interpretazione dell'origine della scrittura. Nella sua opera Fedro egli inserì il mito di Theutes, meglio conosciuto come il dio Thot che, secondo la tradizione egiziana, donò all'umanità, e in particolare agli Egizi, l'invenzione della lingua. Platone fa dire a Thoth che la scrittura
“renderà gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”. (Fedro 274)
Platone non fa che riportare un'antica credenza che faceva della lingua una invenzione divina ma egli fornisce una interpretazione ironica della questione e in sostanza esalta il linguaggio parlato rispetto a quello scritto poiché fa dire al re, con il quale Thot sta dialogando, che
“essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non piú dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”. (Fedro 275)
Autori contemporanei a Platone riporteranno resoconti dei loro viaggi e della loro conoscenza degli egiziani riferendo fatti storici e racconti di vita quotidiana. Ecateo di Mileto (550-476 BC) visitò l'Egitto e può essere considerato uno dei primi autori greci a scrivere della cultura egizia. Il suo lavoro è purtroppo andato perduto ma è riportato da Erodoto che riferisce di un dialogo tra Ecateo e alcuni sacerdoti egizi di Tebe (Storie II, 143)
Anche Ellanico di Mitilene (490-405 BC) sembra aver avuto una qualche conoscenza accurata dei geroglifici considerando la stesura della sua opera  Aigyptiaka, consistente in alcuni volumi.
Democrito (460-370 BC)  scrisse dei geroglifici osservati a Meroe ma la sua opera, andata perduta e si intitolava probabilmente "Sulla scrittura sacra di Meroe" così come riporta Diogene Laertius nella sua Vita di Democrito.
Erodoto (484-425 BC) il più famoso degli storici dell'antichità vissuto nel V secolo a.C. visitò l'Egitto e raccolse moltissime informazioni sulla religione e la vita, ancora oggi un importante punto di riferimento per gli studiosi. Riguardo alla lingua egizia scrive:
“ I Greci scrivono e fanno di conto coi sassolini da sinistra a destra, gli Egiziani da destra a sinistra, e ciò facendo sostengono di procedere nel verso giusto, mentre i Greci scriverebbero a rovescio. Possiedono due sistemi di scrittura che chiamano "sacra" e "demotica"( Storie II, 36).
Dunque l'autore riferisce di differenti modi di scrivere in uso in Egitto quando egli intraprese il suo viaggio.
Ecateo di Abdera (IV BC) storico greco e filosofo che visse ad Alessandria tra il 320 e il 305 a.C. scrisse anch'egli un'opera sulla storia egiziana intitolata Aigyptiaka, purtroppo persa ma parzialmente sopravvissuta negli scritti di Diodoro Siculo (Libro I, 46)
Il primo a dare alcune informazioni sulla storia dell'antico Egitto basandosi su fonti antiche fu Manetone, vissuto nel III secolo a.C. sotto Tolomeo I. Egli era un sacerdote di Osiride e scrisse una Storia d'Egitto, o  Aegyptiaca, dove  inserì la sua famosa lista dei faraoni. Egli aveva di sicuro delle informazioni sulla tradizione e sulla scrittura del tempo per elaborare una tale lista di regnanti, che va comunque presa con cautela vista la mancanza di fonti archeologiche e testuali. Manetone tradusse e trascrisse i testi geroglifici avendo accesso agli archi demotici che di sicuro ha usato come fonte per il suo lavoro, senza dimenticare poi le iscrizioni disseminate sui  templi e sulle stele ancora in piedi.
Anche Diodoro Siculo, (90-27 BC) fece un viaggio in Egitto a metà del I secolo a.C. e scrisse che gli egiziani esprimevano le loro idee metaforicamente:
“l’aquila simboleggia per loro tutto ciò che accade velocemente poichè questa creatura è la più veloce degli uccelli. E l’idea è trasferita metaforicamente a tutte le cose a cui può riferirsi la velocità”. (Biblioteca Storica)
Durante questo periodo vi era la convinzione che la cultura egizia e la sua lingua fossero nate in Etiopia, ecco perché scrisse "La forma delle loro lettere è Etiope" (III 3,4- III 4,1)
Etiopia  significa Nubia, ovvero il regno di Kush, nel sud dell'Egitto. Sebbene l'Egitto fosse strettamente connesso per cultura e religione a questa regione la lingua egizia non ha nulla in comune con la lingua etiope.
Strabone, vissuto nel I d.C. nella sua Geografia scrisse:
“tra le tombe ci sono obelischi con iscrizioni che denotano lo stato dei faraoni a quel tempo e l’estensione del loro impero che raggiungeva gli Scitiani, Bactriani, Indiani e l’attuale Ionia; l’ammontare dei tributi e il numero dei soldati che componevano l’armata di circa un milione di uomini.” (XVII, 1, 46)
Anche Germanico, generale romano e nipote di Augusto,  quando visitò l'Egitto nel 19 a.C. volle visitare i monumenti e con l'aiuto di un sacerdote locale cercò di tradurre i geroglifici in latino e greco, dimostrando un certo interesse per la storia e la cultura della terra dei faraoni.
Cheremone di Alessandria, un sacerdote egizio vissuto nel I d.C. scrisse dei geroglifici in un'opera intitolata Storia dell'Egitto che sopravvive solo nel lavoro del bizantino  John Tzetezes, un filologo del XII secolo che parlava anch'egli di aithiopica grammata. Cheremone considerava i segni geroglifici come segni allegorici. Dunque malgrado egli fosse un sacerdote egiziano dimostrò di aderire al concetto greco dominante secondo cui la lingua egizia era considerata simbolica. Sebbene fosse vissuto durante il I d.C. egli non capì il vero significato di molti segni. E' importante considerare che durante il periodo tolemaico i sacerdoti egizi ingrandirono deliberatamente il mistero intorno alla lingua per preservare il sacerdozio come posizione esclusiva. Una prova è il numero enorme di segni geroglifici prodotto in questo periodo  tanto da sfiorare le diverse migliaia. Se durante l'era classica della storia egiziana i segni erano circa 1000 ora arrivano a 5000.
Plutarco, vissuto nel I d.C. in De Iside et Osiride riferisce di uno dei miti più conosciuti della letteratura egiziana antica sebbene interpretandolo da un punto di vista greco e non manca di parlare di Pitagora:
 “Pare che soprattutto Pitagora sia rimasto così colpito e tanto abbia ammirato quegli uomini da trasfondere la loro tensione simbolica e misterica nelle sue dottrine, adattandole ad una forma enigmatica, E in effetti la maggior parte dei precetti pitagorici non si discosta da quegli scritti chiamati geroglifici.” (De Iside et Osiride, 10, 354E,)
Plutarco pensava, erroneamente, che i geroglifici fossero una sorta di metafora.
Negli Annali Tacito, vissuto a cavallo tra I e II d.C. scrisse:
 “Furono gli egizi che per primi fecero delle idee dei simboli e ciò attraverso le figure di animali. Questi documenti, i più antichi della storia umana sono a ancora scolpiti nella pietra. Gli egiziani in più rivendicano l’invenzione dell’alfabeto.”. (XI, 14)
Solo Clemente di Alessandria, vissuto nel II-III d.C. fece una chiara distinzione tra geroglifico e demotico. Un passaggio della sua opera egli afferma che i geroglifici sono segni fonetici. Egli fu il primo ad usare il termine "geroglifico" e Champollion apprezzerà molto il suo lavoro tanto da riportarne un passaggio nel suo Précis du Système hiéroglyphique des anciens Egyptiens:
“Per esempio coloro che hanno studiato presso gli egizi per primi imparano che lo stile dei caratteri egizi è epistolografico; in secondo luogo, lo ieratico che è la lingua sacra impiegata dagli scribi, in ultimo la geroglifica. Questa a volte che può essere impiegata sia letteralmente che simbolicamente, e quando vengono usati I simboli essa spesso si intende come imitazione mentre alter volte descrive in modo figurato e in altre ancora semplicemente dice una cosa per un’altra come in certi enigmi.” (Stromateis, V, 4,21,4) 

La nozione di lingua egizia come enigmatica, esoterica e simbolica fu perpetuata e trasmessa dai filosofi neoplatonici durante i primi secoli d.C. tanto che essi stessi la adottarono come scrittura ispirata dalla divinità che racchiudeva tutto il sapere umano. Grazie a questo punto di vista ci fu un'ampia produzione di scritti ermetici e di un genere di letteratura molto vicina a questa interpretazione
Plotino e i neoplatonici consideravano il geroglifici come l'espressione di un sapere sacro. Essi erano le immagini del pensiero, le immagini delle idee e non la lingua. Essi discutevano della questione da un punto di vista filosofico per raggiungere una teoria generale del linguaggio.  
Plotino stesso in scrisse:
“Analogamente, per quanto mi sembra, il saggio d'Egitto, sia in una precisa conoscenza o da un suggerimento di natura, indicava la verità quando, nello sforzo verso l'affermazione filosofica, hanno lasciato da parte le forme di scrittura che prendono nel dettaglio  parole e frasi, quei personaggi che rappresentano i suoni e trasmettono le proposte di ragionamento, e al contrario disegnano  immagini, incidendole nel tempio, un'immagine separata per ogni voce distinta: così spiegano la modalità secondo cui il Supremo si manifesta. Per ogni manifestazione della conoscenza e della saggezza c’è un'immagine distinta, un oggetto in sé, una unità immediata, non come avviene per il ragionamento discorsivo e il volere dettagliato.” (Enneade V 8,6)

Porfirio il Fenicio, vissuto a cavallo tra III e IV d.C. scrisse:

“In Egitto Pitagora visse tra i sacerdoti e imparò il sapere e la lingua degli egiziani e i tre modi di scrivere, epistolografico, geroglifico e simbolico che a volte si avvicina alla mimesis oppure descrive una cosa con un’altra come accade in certi enigmi” (De Vita Pythagorae, 11-12).
Porfirio aveva ragione nel descrivere una variante della scrittura egizia come simbolica poiché difatti ci sono forme distinte di scrittura in Egitto: demotico, ieratico, geroglifico e crittografico (o simbolico). Quest'ultima forma era considerata un codice segreto accessibile  solo da pochi iniziati e basata sulla nozione che questa scrittura simbolica (i cui segni nascondevano una conoscenza simbolica) fossero l'imitazione della creazione divina: i geroglifici sono visti come parte della creazione intrapresa da Ptah, il demiurgo di Menfi, e custoditi da Thot. Di conseguenza essi erano imbevuti di funzioni teurgiche. In aggiunta sia le immagini sacre che scritte nella loro unità erano designate come "dei" (neteru). I simboli sono divinità visibili sulla pietra, la manifestazione dell'immortalità.

Giamblico, vissuto tra III e IV d.C. spiegò perfettamente il principio di "significato diretto" che si nascondeva nella crittografia delle iscrizioni tarde nei templi. Su questa visuale si fondò la visione mitica greca dei geroglifici. Lo sbaglio non stava tanto nel fatto che essi interpretavano la scrittura come un codice segreto invece che come sistema di scrittura normale. Gli egiziani infatti trasformarono la scrittura  in un codice segreto e così la descrissero ai greci. Il vero fraintendimento stava nel non aver identificato il significato estetico della crittografia come calligrafia. I sacerdoti egizi di certo contribuirono a questa incomprensione e non deve essere una coincidenza se essi resero la scrittura geroglifica ancora più complicata proprio nel periodo in cui l'Egitto veniva invaso dai greci e governato dai Tolomei.

I geroglifici erano visti come cose viventi: oggetti demiurgici e teurgici in grado di racchiudere i poteri divini, erano epifanie testuali degli dei. Essi erano il ricettacolo dei poteri divini e avevao una loro vita magica. La loro funzione era teurgica: non solo all'interno del testo scritto ma anche all'interno dell'intero universo.

Lo storico romano Ammiano Marcellino nel IV d.C. riportava una accurata interpretazione dei geroglifici:

“Singoli caratteri indicano single parole e verbi e a volte indicano intere frasi. Il principio di questa cosa può essere illustrato con questi due esempi: attraverso un avvoltoio essi rappresentano la parola “natura” poiché come documentato in natura nessuno di questi volatili ha esemplari maschi; con l’immagine di un’ape che produce il miele essi indicano “il faraone” dimostrando con questa immagine che in chi ha il comando la dolcezza può essere combinata al pungiglione” (17.4.0–1; vol. 1, 322–3)

Come Diodoro Siculo e Clemente di Alessandria egli considerava i geroglifici come il risultato di una invenzione dei sacerdoti con significato allegorico per preservare il faraone e i testi sacri dalla moltitudine.

Horapollo, nativo dell'alto Egitto nel V d.C. fu l'autore di Hieroglyphica, un'opera che fu scoperta sull'isola di Andros nel 1419 e che aveva al suo interno 189 immagini di geroglifici.  Probabilmente il libro era stato scritto in copto ma solo la traduzione greca è sopravvissuta. Horapollo mostra una certa conoscenza dell'argomento sebbene egli abbia combinato nozioni correte con spiegazioni alquanto strane. E' interessante fare alcuni esempi per spiegare il suo modo di interpretare la lingua egizia:  secondo lui quando un egiziano voleva indicare il concetto di aprire egli usava la lepre poiché questo animale non chiude mai gli occhi, allo stesso modo l'oca simboleggiava il figlio poiché questo uccello ama molto la sua prole.

Quando i neoplatonici del rinascimento riscoprirono Horapollo e il Corpus hermeticum l'Egitto venne ad avere un ruolo importante nella cultura dell'epoca. Gli intellettuali riscoprirono un profondo interesse per la scrittura simbolica alla ricerca di un principio universale. Quelli furono i primi approcci alla decifrazione. La curiosità cresceva ma il nuovo interesse sfortunatamente incoraggiò un punto di vista che avrebbe ostacolato per  molto tempo il vero successo nella decifrazione.