venerdì 27 maggio 2011

LA CONCEZIONE DEI GEROGLIFICI EGIZIANI NEI TEMPI ANTICHI


La lingua dell'antico Egitto, come tutti sanno, era scritta attraverso immagini stilizzate di esseri viventi, uomini e animali, piante, oggetti e altro. I Greci antichi chiamavano questo tipo di scrittura ta hieroghyphika grammata, ovvero le sacre lettere incise. In passato veniva generalmente ammesso che il linguaggio discorsivo non potesse raggiungere la vera conoscenza. Al contrario, secondo molti autori e studiosi dell’antichità e non solo, lo scopo dei geroglifici egizi era proprio quello di permettere il raggiungimento di un sapere nascosto alla moltitudine. Questa convinzione si è protratta per molti secoli prima che finalmente i geroglifici fossero decifrati. Ma fino ad allora era parere comune che dietro di essi si nascondesse la Verità. Questa nozione di natura simbolica della scrittura geroglifica aveva radici profonde e si diffuse a partire dai tempi antichi: i geroglifici nascondevano un antico sapere che ne aumentò il fascino e il mistero.
La conoscenza della lingua egizia scomparve gradualmente durante i primi secoli dell'era cristiana,  sebbene ci fossero ancora sacerdoti che dimostravano di comprendere la lingua ieratica e quella demotica durante il II secolo a.C. L'ultimo testo scritto in geroglifico è datato al 396 d.C. conosciuto come il Graffito di Esmet-Akhom e si trova nel tempio di File, più precisamente sulla Porta di Adriano. L'ultima iscrizione in demotico è invece del 452 d.C. sempre da File. In quel momento si può affermare che la lingua geroglifica fosse ormai morta. Il processo venne senza dubbio accelerato da Teodosio I che chiuse tutti i templi non cristiani nel 391 d.C. Da questo momento si hanno solo notizie confuse e contraddittorie circa una tradizione millenaria che rimarrà seppellita per lungo tempo. La lingua egizia sopravvisse grazie al Copto solo per un breve periodo di tempo durante il I secolo d.C. prima di cadere nell'oblio nella tarda antichità. Il copto era scritto con lettere greche e il supplemento di sette segni demotici e il suo vocabolario era una commistione di parole greche ed egiziano. Il copto sarà di grande aiuto per la futura decifrazione ma non riuscì a mantenere viva la lingua egizia con l’avvento dell’era cristiana.
Anche quando la lingua egizia continuava ad essere viva i Greci e i Romani a diretto contatto con questa cultura non compresero mai davvero i suoi scritti incisi sui monumenti o i testi in ieratico e demotico conservati dai papiri. Malgrado ciò furono diversi gli autori, studiosi e filosofi che intrapresero viaggi in Egitto attratti dalla cultura faraonica, soprattutto durante gli ultimi secoli del I millennio a.C. Essi tentarono di dare una qualche spiegazione della lingua per poter risalire alle sue origini.
Una prima testimonianza riguarda Platone, il famoso discepolo di Socrate che durante il V secolo a.C. diede una sua interpretazione dell'origine della scrittura. Nella sua opera Fedro egli inserì il mito di Theutes, meglio conosciuto come il dio Thot che, secondo la tradizione egiziana, donò all'umanità, e in particolare agli Egizi, l'invenzione della lingua. Platone fa dire a Thoth che la scrittura
“renderà gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”. (Fedro 274)
Platone non fa che riportare un'antica credenza che faceva della lingua una invenzione divina ma egli fornisce una interpretazione ironica della questione e in sostanza esalta il linguaggio parlato rispetto a quello scritto poiché fa dire al re, con il quale Thot sta dialogando, che
“essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non piú dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”. (Fedro 275)
Autori contemporanei a Platone riporteranno resoconti dei loro viaggi e della loro conoscenza degli egiziani riferendo fatti storici e racconti di vita quotidiana. Ecateo di Mileto (550-476 BC) visitò l'Egitto e può essere considerato uno dei primi autori greci a scrivere della cultura egizia. Il suo lavoro è purtroppo andato perduto ma è riportato da Erodoto che riferisce di un dialogo tra Ecateo e alcuni sacerdoti egizi di Tebe (Storie II, 143)
Anche Ellanico di Mitilene (490-405 BC) sembra aver avuto una qualche conoscenza accurata dei geroglifici considerando la stesura della sua opera  Aigyptiaka, consistente in alcuni volumi.
Democrito (460-370 BC)  scrisse dei geroglifici osservati a Meroe ma la sua opera, andata perduta e si intitolava probabilmente "Sulla scrittura sacra di Meroe" così come riporta Diogene Laertius nella sua Vita di Democrito.
Erodoto (484-425 BC) il più famoso degli storici dell'antichità vissuto nel V secolo a.C. visitò l'Egitto e raccolse moltissime informazioni sulla religione e la vita, ancora oggi un importante punto di riferimento per gli studiosi. Riguardo alla lingua egizia scrive:
“ I Greci scrivono e fanno di conto coi sassolini da sinistra a destra, gli Egiziani da destra a sinistra, e ciò facendo sostengono di procedere nel verso giusto, mentre i Greci scriverebbero a rovescio. Possiedono due sistemi di scrittura che chiamano "sacra" e "demotica"( Storie II, 36).
Dunque l'autore riferisce di differenti modi di scrivere in uso in Egitto quando egli intraprese il suo viaggio.
Ecateo di Abdera (IV BC) storico greco e filosofo che visse ad Alessandria tra il 320 e il 305 a.C. scrisse anch'egli un'opera sulla storia egiziana intitolata Aigyptiaka, purtroppo persa ma parzialmente sopravvissuta negli scritti di Diodoro Siculo (Libro I, 46)
Il primo a dare alcune informazioni sulla storia dell'antico Egitto basandosi su fonti antiche fu Manetone, vissuto nel III secolo a.C. sotto Tolomeo I. Egli era un sacerdote di Osiride e scrisse una Storia d'Egitto, o  Aegyptiaca, dove  inserì la sua famosa lista dei faraoni. Egli aveva di sicuro delle informazioni sulla tradizione e sulla scrittura del tempo per elaborare una tale lista di regnanti, che va comunque presa con cautela vista la mancanza di fonti archeologiche e testuali. Manetone tradusse e trascrisse i testi geroglifici avendo accesso agli archi demotici che di sicuro ha usato come fonte per il suo lavoro, senza dimenticare poi le iscrizioni disseminate sui  templi e sulle stele ancora in piedi.
Anche Diodoro Siculo, (90-27 BC) fece un viaggio in Egitto a metà del I secolo a.C. e scrisse che gli egiziani esprimevano le loro idee metaforicamente:
“l’aquila simboleggia per loro tutto ciò che accade velocemente poichè questa creatura è la più veloce degli uccelli. E l’idea è trasferita metaforicamente a tutte le cose a cui può riferirsi la velocità”. (Biblioteca Storica)
Durante questo periodo vi era la convinzione che la cultura egizia e la sua lingua fossero nate in Etiopia, ecco perché scrisse "La forma delle loro lettere è Etiope" (III 3,4- III 4,1)
Etiopia  significa Nubia, ovvero il regno di Kush, nel sud dell'Egitto. Sebbene l'Egitto fosse strettamente connesso per cultura e religione a questa regione la lingua egizia non ha nulla in comune con la lingua etiope.
Strabone, vissuto nel I d.C. nella sua Geografia scrisse:
“tra le tombe ci sono obelischi con iscrizioni che denotano lo stato dei faraoni a quel tempo e l’estensione del loro impero che raggiungeva gli Scitiani, Bactriani, Indiani e l’attuale Ionia; l’ammontare dei tributi e il numero dei soldati che componevano l’armata di circa un milione di uomini.” (XVII, 1, 46)
Anche Germanico, generale romano e nipote di Augusto,  quando visitò l'Egitto nel 19 a.C. volle visitare i monumenti e con l'aiuto di un sacerdote locale cercò di tradurre i geroglifici in latino e greco, dimostrando un certo interesse per la storia e la cultura della terra dei faraoni.
Cheremone di Alessandria, un sacerdote egizio vissuto nel I d.C. scrisse dei geroglifici in un'opera intitolata Storia dell'Egitto che sopravvive solo nel lavoro del bizantino  John Tzetezes, un filologo del XII secolo che parlava anch'egli di aithiopica grammata. Cheremone considerava i segni geroglifici come segni allegorici. Dunque malgrado egli fosse un sacerdote egiziano dimostrò di aderire al concetto greco dominante secondo cui la lingua egizia era considerata simbolica. Sebbene fosse vissuto durante il I d.C. egli non capì il vero significato di molti segni. E' importante considerare che durante il periodo tolemaico i sacerdoti egizi ingrandirono deliberatamente il mistero intorno alla lingua per preservare il sacerdozio come posizione esclusiva. Una prova è il numero enorme di segni geroglifici prodotto in questo periodo  tanto da sfiorare le diverse migliaia. Se durante l'era classica della storia egiziana i segni erano circa 1000 ora arrivano a 5000.
Plutarco, vissuto nel I d.C. in De Iside et Osiride riferisce di uno dei miti più conosciuti della letteratura egiziana antica sebbene interpretandolo da un punto di vista greco e non manca di parlare di Pitagora:
 “Pare che soprattutto Pitagora sia rimasto così colpito e tanto abbia ammirato quegli uomini da trasfondere la loro tensione simbolica e misterica nelle sue dottrine, adattandole ad una forma enigmatica, E in effetti la maggior parte dei precetti pitagorici non si discosta da quegli scritti chiamati geroglifici.” (De Iside et Osiride, 10, 354E,)
Plutarco pensava, erroneamente, che i geroglifici fossero una sorta di metafora.
Negli Annali Tacito, vissuto a cavallo tra I e II d.C. scrisse:
 “Furono gli egizi che per primi fecero delle idee dei simboli e ciò attraverso le figure di animali. Questi documenti, i più antichi della storia umana sono a ancora scolpiti nella pietra. Gli egiziani in più rivendicano l’invenzione dell’alfabeto.”. (XI, 14)
Solo Clemente di Alessandria, vissuto nel II-III d.C. fece una chiara distinzione tra geroglifico e demotico. Un passaggio della sua opera egli afferma che i geroglifici sono segni fonetici. Egli fu il primo ad usare il termine "geroglifico" e Champollion apprezzerà molto il suo lavoro tanto da riportarne un passaggio nel suo Précis du Système hiéroglyphique des anciens Egyptiens:
“Per esempio coloro che hanno studiato presso gli egizi per primi imparano che lo stile dei caratteri egizi è epistolografico; in secondo luogo, lo ieratico che è la lingua sacra impiegata dagli scribi, in ultimo la geroglifica. Questa a volte che può essere impiegata sia letteralmente che simbolicamente, e quando vengono usati I simboli essa spesso si intende come imitazione mentre alter volte descrive in modo figurato e in altre ancora semplicemente dice una cosa per un’altra come in certi enigmi.” (Stromateis, V, 4,21,4) 

La nozione di lingua egizia come enigmatica, esoterica e simbolica fu perpetuata e trasmessa dai filosofi neoplatonici durante i primi secoli d.C. tanto che essi stessi la adottarono come scrittura ispirata dalla divinità che racchiudeva tutto il sapere umano. Grazie a questo punto di vista ci fu un'ampia produzione di scritti ermetici e di un genere di letteratura molto vicina a questa interpretazione
Plotino e i neoplatonici consideravano il geroglifici come l'espressione di un sapere sacro. Essi erano le immagini del pensiero, le immagini delle idee e non la lingua. Essi discutevano della questione da un punto di vista filosofico per raggiungere una teoria generale del linguaggio.  
Plotino stesso in scrisse:
“Analogamente, per quanto mi sembra, il saggio d'Egitto, sia in una precisa conoscenza o da un suggerimento di natura, indicava la verità quando, nello sforzo verso l'affermazione filosofica, hanno lasciato da parte le forme di scrittura che prendono nel dettaglio  parole e frasi, quei personaggi che rappresentano i suoni e trasmettono le proposte di ragionamento, e al contrario disegnano  immagini, incidendole nel tempio, un'immagine separata per ogni voce distinta: così spiegano la modalità secondo cui il Supremo si manifesta. Per ogni manifestazione della conoscenza e della saggezza c’è un'immagine distinta, un oggetto in sé, una unità immediata, non come avviene per il ragionamento discorsivo e il volere dettagliato.” (Enneade V 8,6)

Porfirio il Fenicio, vissuto a cavallo tra III e IV d.C. scrisse:

“In Egitto Pitagora visse tra i sacerdoti e imparò il sapere e la lingua degli egiziani e i tre modi di scrivere, epistolografico, geroglifico e simbolico che a volte si avvicina alla mimesis oppure descrive una cosa con un’altra come accade in certi enigmi” (De Vita Pythagorae, 11-12).
Porfirio aveva ragione nel descrivere una variante della scrittura egizia come simbolica poiché difatti ci sono forme distinte di scrittura in Egitto: demotico, ieratico, geroglifico e crittografico (o simbolico). Quest'ultima forma era considerata un codice segreto accessibile  solo da pochi iniziati e basata sulla nozione che questa scrittura simbolica (i cui segni nascondevano una conoscenza simbolica) fossero l'imitazione della creazione divina: i geroglifici sono visti come parte della creazione intrapresa da Ptah, il demiurgo di Menfi, e custoditi da Thot. Di conseguenza essi erano imbevuti di funzioni teurgiche. In aggiunta sia le immagini sacre che scritte nella loro unità erano designate come "dei" (neteru). I simboli sono divinità visibili sulla pietra, la manifestazione dell'immortalità.

Giamblico, vissuto tra III e IV d.C. spiegò perfettamente il principio di "significato diretto" che si nascondeva nella crittografia delle iscrizioni tarde nei templi. Su questa visuale si fondò la visione mitica greca dei geroglifici. Lo sbaglio non stava tanto nel fatto che essi interpretavano la scrittura come un codice segreto invece che come sistema di scrittura normale. Gli egiziani infatti trasformarono la scrittura  in un codice segreto e così la descrissero ai greci. Il vero fraintendimento stava nel non aver identificato il significato estetico della crittografia come calligrafia. I sacerdoti egizi di certo contribuirono a questa incomprensione e non deve essere una coincidenza se essi resero la scrittura geroglifica ancora più complicata proprio nel periodo in cui l'Egitto veniva invaso dai greci e governato dai Tolomei.

I geroglifici erano visti come cose viventi: oggetti demiurgici e teurgici in grado di racchiudere i poteri divini, erano epifanie testuali degli dei. Essi erano il ricettacolo dei poteri divini e avevao una loro vita magica. La loro funzione era teurgica: non solo all'interno del testo scritto ma anche all'interno dell'intero universo.

Lo storico romano Ammiano Marcellino nel IV d.C. riportava una accurata interpretazione dei geroglifici:

“Singoli caratteri indicano single parole e verbi e a volte indicano intere frasi. Il principio di questa cosa può essere illustrato con questi due esempi: attraverso un avvoltoio essi rappresentano la parola “natura” poiché come documentato in natura nessuno di questi volatili ha esemplari maschi; con l’immagine di un’ape che produce il miele essi indicano “il faraone” dimostrando con questa immagine che in chi ha il comando la dolcezza può essere combinata al pungiglione” (17.4.0–1; vol. 1, 322–3)

Come Diodoro Siculo e Clemente di Alessandria egli considerava i geroglifici come il risultato di una invenzione dei sacerdoti con significato allegorico per preservare il faraone e i testi sacri dalla moltitudine.

Horapollo, nativo dell'alto Egitto nel V d.C. fu l'autore di Hieroglyphica, un'opera che fu scoperta sull'isola di Andros nel 1419 e che aveva al suo interno 189 immagini di geroglifici.  Probabilmente il libro era stato scritto in copto ma solo la traduzione greca è sopravvissuta. Horapollo mostra una certa conoscenza dell'argomento sebbene egli abbia combinato nozioni correte con spiegazioni alquanto strane. E' interessante fare alcuni esempi per spiegare il suo modo di interpretare la lingua egizia:  secondo lui quando un egiziano voleva indicare il concetto di aprire egli usava la lepre poiché questo animale non chiude mai gli occhi, allo stesso modo l'oca simboleggiava il figlio poiché questo uccello ama molto la sua prole.

Quando i neoplatonici del rinascimento riscoprirono Horapollo e il Corpus hermeticum l'Egitto venne ad avere un ruolo importante nella cultura dell'epoca. Gli intellettuali riscoprirono un profondo interesse per la scrittura simbolica alla ricerca di un principio universale. Quelli furono i primi approcci alla decifrazione. La curiosità cresceva ma il nuovo interesse sfortunatamente incoraggiò un punto di vista che avrebbe ostacolato per  molto tempo il vero successo nella decifrazione.

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